domenica 26 settembre 2010

Luciano Inga Pin - Lettera a Luciano: Scusate il ritardo!

Luciano Inga-Pin
Pagina dedicata a Luciano Inga-Pin, per quel rapporto, breve ma intenso che ho avuto con lui, a cavallo tra il 1975-76 e il 1977-78, quando senza saperlo (né io e né lui), forse, abbiamo contribuito ad anticipare un humus iniziato negli anni 90

L'ingresso della sua Galleria "Il Diagramma", in Via Pontaccio, 12/A - Milano-angolo
Corso Garibaldi / Quartiere di Brera
Luciano, con Lea Vergine e Emi Fontana, ai tempi della Body Art (anni 70), in cui
per la prima volta presentò in Italia Marina Abramovic, Gina Pane e Urs Lüthi  (Foto Mario Gorni)


In una delle ultime foto, prima che ci salutasse
Luciano con Giovanni Tufano, in una delle tante mostre curate da lui
Luciano Inga-Pin, nella sua Casa-Galleria


Caro Luciano, 
scusa il ritardo, ma anche se a distanza di oltre un anno dalla tua “scomparsa”, mi piace scriverti adesso che ho un blog, senza l’emozione del momento …perché per me sei sempre in via Pontaccio 12 A, alle prese con le tue mostre, con i tuoi amici e con i giovani artisti…dove ho lasciato una parte di me stesso …e poi tu sai benissimo che per me il tempo è stato, ed è, relativo, molto relativo…quasi inesistente, anche se implacabile, distratto come sono, dagli impegni quotidiani e dai miei pensieri (a volte) che mi spingevano istintivamente in sentieri avventurosi abbozzati (forse in anticipo, senza rendermene conto) andando a scavare in un mio percorso formativo, partendo da una mia realtà antropologica e culturale iniziando dalle quattro mura di casa, per approdare in una realtà molto più ampia….ma senza mai fare calcoli di tempo…perché incapace nel momento magico e  ansiogeno (per me) della creatività, di “calcolare” tempi e strategie. Questo, forse anche per fattori caratteriali dovuti ad una mia riservatezza, e al "dubbio" che non mi lascia mai, che mi spingono postume a prendere coscienza?…Pare di si, ed è molto probabile…

Quanti andirivieni nella tua casa-galleria di via Pontaccio, dove volentieri mi affacciavo dal balcone chiacchierando con altri amici e compagni di strada durante le mostre che tu organizzavi. Quanti ricordi…quanti affetti…quante speranze….quanti nuovi amici conosciuti, grazie a te, alla tua capacità di comunicare e di richiamare tutta una nuova generazione di artisti. Mi ricordo quando suonavo il campanello alla tua porta vetrata. Ti affacciavi sempre con molta disponibilità, interesse e simpatia, con quegli occhi ingigantiti dagli occhiali, da sembrare due binocoli e il sorriso immancabile. Sempre gentile. Sempre sincero. Mi ricordo anche il tuo cane pastore che ti faceva da guardia per un certo periodo. Mi ricordo, in particolare, quando conobbi Giorgio Verzotti e gli parlasti in modo molto simpatico e affettuoso di me e del mio lavoro che svolgevo in bicicletta spostandomi da una zona all’altra di Milano, come agente della Casa Edtrice Einaudi, elogiandomi, come giovane artista, nel fare questa attività per vivere…

Io come altri, sono stato nella tua “sala d’attesa”. Mi dispiace solo di quel dialogo “interrotto” tra te e me, a proposito del mio lavoro, in  quegli anni a cavallo, tra il 1975-76 e il 1978… Infatti, quando ebbi modo di conoscere, tra gli altri, anche Mimmo Paladino nella tua galleria di via Pontaccio (1978), l’aria che si respirava nel mondo dell’arte, iniziava a cambiare, purtroppo non solo per gli artisti come me, ma (penso) anche per un “gallerista” come te, di punta, a cui interessava il presente in ogni attimo... Capii,  che il momento non era più favorevole per il mio modo di lavorare, tanto da scoraggiarmi nel completare la mia presentazione attraverso le opere, sia di fotografia che di alcuni film super 8 realizzati tra il 1975, 76 e il 1977-78, che dovevo ancora sistemare per la presentazione. Una mostra che di lì a poco, avrei fatto alla Galleria Taide di Salerno (di Pietro Lista e Cristina Di Geronimo), con una proiezione informale di alcuni film, tra amici, la sera dopo il vernissage, tra cui il fotografo Pino Musi, il giornalista Giovanni Ugo Di Pace, l'antropologo Paolo Apolito, il fotografo Pino Musi, Luciano Cilio, artista-musicista di quella Napoli del nuovo sound di ricerca, Carmine Limatola (detto Ableo), Gelsomino D'Ambrosio, Art Director di Segno Associati, lo stesso Pietro Lista e Cristina Di Geronimo, e altri (non ricordo se ci fossero anche Rino Mele e Angelo Trimarco), che manifestarono tutto il loro interesse. Film che poi tu hai visto in VHS, tra il 1997 e il 1999-2000. Quando alcuni giorni dopo ti telefonai mi rispondesti che ne eri entusiasta…Poi non so cosa sia successo…non ci siamo più sentiti. Io l’eterno precario (per campare) in una scuola  pubblica italiana sempre più problematica  e degradata, con tutti gli aspetti consequenziali  che si riversavano (e si riversano) nella vita quotidiana e tu…a continuare la tua attività, tra i mille impegni, con passione,  fino all’ultimo. 

Infatti in quell’anno 78, mentre Mimmo mi diceva, tra l’altro,  che stava cercando casa a Milano, il sottoscritto invece la lasciava (ad un amico pittore: Franco Tripodi) la sua piccola casetta (di 40 m2 al quarto piano di via Torricelli al n.5), che non lavorava più con la Casa editrice Einaudi, e intuendo quel “ritorno all’ordine” attraverso la manualità pittorica e il decorativismo, gli rispose che stava per lasciare quella città. Lasciare Milano, sentendosi “inutile”, data anche la difficoltà nel sopravvivere e nel rifiutare sull’altro versante, il facile mercato del sottobosco della città meneghina. Per la stima che tu sicuramente provavi nei miei confronti, fui invitato da te (dopo che avevi preventivato una mia presenza in galleria con un paio di mie opere) ad adeguarmi alla nuova realtà, che come ti dissi,  non mi sentii di “accettare”,  ringraziandoti di cuore,  convinto fino all’ultimo del mio lavoro (anche se tra mille dubbi) che stavo svolgendo e che avevo svolto fino ad allora e che stavo portando avanti, guardando oltre il presente (incosapevolmente proiettato verso gli anni 90?), che tu ancora non conoscevi bene fino in fondo, dal momento in cui “oggettivamente”(come fummo travolti entrambi dal ritorno all'ordine con lo “tzunami” della transavanguardia e di altri "movimenti" similari) fosti costretto (forse), anche senza “tradirmi” ad “abbandonarmi” e non mi fu più dato tempo di proseguire nel fartelo conoscere. Il "Nuovo Futurismo" che teorizzasti nel 1983, insieme a Renato Barilli, era ancora lontano…Così tolsi l'incomodo...non perché non sapessi dipingere "rifiutando la pittura" (anzi avrei potuto riprendere con un mio segno neo-espressionistico che avevo da adolescente allievo nell'Istituto d'Arte di Salerno), ma perché il mio lavoro guardava innanzitutto oltre me stesso, la narrative art, la body art, la performance, era molto "diverso" dalle altre esperienze che tu avevi proposto in quegli anni a Milano, tra cui due grandi della body art, Gina Pane e Marina Abramovic, Guglielmo Achille Cavellini e tanti altri. Una similitudine azzardata, era possibile con altri giovani su un lavoro (forse) prettamente fotografico (inteso come linea di partenza), ma non nell'uso dei vari mezzi tecnico-espressivi, tra cui il desiderio per un uso autonomo del mezzo filmico...

Arrivarono gli anni 80, che per me rappresentano un “buco nero”…Ormai da Milano ero rientrato a Salerno, dall’estate del 1978, dove nella mia città (Campagna), ho vissuto il tragico terremoto del novembre 80, e dove nel 1982, dopo le mie prime personali alla Galleria Taide di Salerno, nel 1978 e 1981 (che volevo e dovevo fare con te, con la proiezione di alcuni dei miei film super 8, perché è con te  e con altri cari amici artisti di Milano, che maturai una mia visione, in quella città dove ho vissuto intensamente gli anni giovanili e di una ricerca spinta agli estremi, non perché Salerno non mi andasse bene, anzi, è il mio capoluogo di provincia, la città della scuola di critica d'arte, dove ho studiato, sognando l'arte, ma al tempo stesso era una città lontana da un circuito nazionale e internazionale), per non sentirmi di nuovo “inutile”, recuperai un antico evento del fiume, in disuso ormai, che serviva, oltre che a pulire le strade della città, nella sua deviazione fluviale, ad un’economia locale che non c’era più, composta da mulini, pastifici, cartiere e creterie (trasformandolo in opera d’arte, come dicono gli amici)…e coinvolgendo “irresponsabilmente” nell'idea progettuale molti altri artisti di ogni parte d’Italia, ad esprimersi con un proprio linguaggio espressivo…attraverso la perfomance, laboratori di pittura e scultura, musica, teatro,danza, video. E così, mentre Lucio Amelio a Napoli, in contemporanea, “responsabilmente”, realizzava “Terrae Motus”, con alcuni dei mostri sacri internazionali dell'arte, dopo avermi invitato nel 1979 a partecipare, come giovane, alla "Rassegna sulla nuova Creatività nel Mezzogiorno", noi progettavamo una sorta di "Aquae Motus", con il progetto "'A Chiena", che dopo il recupero, fu restituita alla Comunità, trasformata in "Opera d'Arte e Spettacolo".

 Posso dire che nella mia vita,  fino ad oggi, ho trovato solo te come interlocutore serio e rigoroso, con cui confrontarmi  e  maturare una mia visione…anche se è mancato quel momento magico di verifica, al seguito dei numerosi incontri che facevamo, per i motivi sopraindicati, dove per un attimo ti sei “distratto”, con tutta la mia comprensione, ma al tempo stesso con tanta amarezza e rammarico da parte mia…in una Milano “grigia”, dove complessivamente ho vissuto per quasi 15 anni, nel mio nomadismo da pendolare, nei continui andirivieni, tra il nord e il sud (Milano-Salerno), nei treni affollati di 2 classe (ultimo step dal 1996 al 2003). Ancora oggi, non riesco a pensare che tu non ci sia più. Per me sei sempre in quell'appartamento di via Pontaccio, in una Brera “da movida”, vuota e  irriconoscibile, con quel tuo sorriso sempre immancabile e con quegli occhi ingigantiti dagli occhiali, da sembrare due binocoli…e la tua disponibilità al dialogo sempre aperta! Milano (la città a tolleranza zero) non ha perso solo un gallerista, ma un pilastro dell'arte contemporanea in Italia...e uno dei più importanti in campo europeo.

Caro Luciano, sapessi quanto mi è  mancata la mia prima mostra personale con te, mediante una  tipologia di lavoro basilare (1975-76-77- film super 8 e fotografia di una realtà altra, nuda e cruda), in anticipo di almeno 14 anni da quell'humus iniziato negli anni 90 (anni di fuoco), aprendo le danze dalla tua postazione milanese, con una delle prime esposizioni che facesti, ospitando tra gli altri, Betty Bee e la prima di Vanessa Beecroft, segnalata da Giacinto Di Pietrantonio...dove invitare tutti i miei amici di Milano (e i tuoi amici), con i quali sono cresciuto e mi hanno aiutato a crescere. 
Spero di poterla fare in un'altra dimensione con te, nel bruniano universo "infinito et mundi", per rifarci del tempo perduto...anche se io non credo nella reincarnazione come te...

Un caro abbraccio…
Angelo Riviello


Nel video che segue si può ascoltare un'intervista a Luciano, che (con Ivan Quaroni, Chiara Canali e altri) parla di uno degli artisti da lui presentati (Giuseppe Veneziano), nella sua galleria di Via Pontaccio a Milano, alcuni anni prima che ci salutasse, di cui condivido in toto, ciò che viene detto, ritrovandomi su tale linea di contenuti, da sempre con il mio lavoro (interdisciplinare), dagli inizi degli anni 70 ad oggi:



domenica 19 settembre 2010

Anni 80/90/2000 - Angelo Riviello Moscato & Giulio Cesare Capaccio - work in progress dal 1986

Ceramica a cera sarda, 1986/2000, diam. 38 cm.

Ceramica a cera sarda, 1986/2000, diam. 38 cm

Ceramica a cera sarda, 1986/2000, diam. 38 cm

Ceramica a cera sarda, 1986/2000, diam. 38 cm

"Il pianto del coccodrillo", 2002, acrilico e tecnica mista su tela,
100x150 cm.

"La gioia del coccodrillo", 2001, acrilico e tecnica mista su tela,
100x140 cm.

"L'impresa della pantera", 2001, acrilico e tecnica mista su tela,
97x140 cm.

"Alban e l'elefante...www.memoires-elephants.com", 2001, acrilico e
tecnica mista su tela, 100x145 cm.

"Il principe cortese", 2001, acrilico e tecnica mista su tela,
70x100 cm.

"Il toro di Agrigento", 2001, acrilico e tecnica mista su tela,
70x100 cm.

"L'impresa di Giuliano", 2000, acrilico e tecnica mista su tela,
70x100 cm.

"Parto immaturo", 2002, acrilico e tecnica mista su tela,
70x100 cm.

"Vipere nel coito", 2000, acrilico e tecnica mista su tela,
70x100 cm.

"La nottola di Minerva", 2000, acrilico e tecnica mista su tela,
 70x100 cm.
"Il piccione e la colomba - Dove manca la natura, opera 
l'arte", 2001,acrilico e tecnica mista su tela, 70x100 cm.

"Nunc Noscito Vires", 2001, acrilico e tecnica mista su tela,
70x100 cm.

"Nuvole", 2002, acrilico e tecnica mista su tela, 70x100 cm.
"La prima impresa: l''eclisse",1986, acrilico, gouache e tecnica mista
su carta murillo intelata, 70x100 cm.

"L'occhio dell'immagine che dietro rappresenta", 1986, acrilico, gouache
e tecnica mista su carta murillo, 70x100 cm.



"La mano occhiuta", 1986, acrilico, gouache e tecnica mista
su carta murillo intelata,70x100 cm.

http://www.undo.net/Pressrelease/ 
http://www.undo.net/it/mostra/9468
(work in progress dal 1986 serie Delle Imprese)

L'artista campano, Angelo Riviello, che da anni vive e lavora tra Milano e la Città di Campagna in provincia di Salerno, e che da anni svolge un lavoro interdisciplinare (fotografia, film-video, installazioni, scultura, pittura), nel recupero di una propria radice: autobiografica, storica, culturale e antropologica, ci presenta questa serie, detta "Delle Imprese", il titolo di un libro del Capaccio, suo conterraneo, letterato e storico, personaggio di potere nel periodo del Barocco Napoletano. Personaggio che conobbe la gloria, ma anche la miseria. Lo storico piu' accreditato di Napoli, che ebbe soprattutto il merito di promuovere ricerche di archeologia. Infatti fu il primo ad interessarsi degli scavi di Pesto (oggi Paestum).

Si tratta di un "work in progress dal 1986", di una delle serie dedicate ai personaggi storici, nati e/o soggiornati nella sua città (Giordano Bruno, Giulio Romano, J.Caramuel y Lobkowitz, etc,), definita dal Vasari come "...una delle meraviglie antiche", parlando di Giulio Romano, nelle sue "Vite". Una serie che vuol essere una sorta di rivisitazione, reinterpretazione e/o sostituzione dei personaggi, scambiando le date, scambiando i periodi, scambiando i nomi. Rendendo un omaggio con affetto, con ironia, con convinzione.

Rivendicando un'identità, legata in questo momento, soprattutto ai rischi della globalizzazione, con una cultura del vuoto sempre piu' dominante. Da un lato si tratta di un omaggio e di una rivisitazione, dall'altro vuol essere un pretesto. Un pretesto per resistere a questa invadenza del vuoto, che si registra in questo nostro sistema sempre piu' globalizzante. Un pretesto per ridiscutere di arte, nelle sue discussioni formali, ma soprattutto nelle idee e nei contenuti, dove il mezzo,per Riviello, e' solo una consequenziale scelta soggettiva.

Nel caso di questi lavori (ad eccezione dei tondi in ceramica a cera sarda), si tratta di pittura: colori acrilici e gouache su carta intelata e acrilico e tecnica mista su tela. Il disegno si compone di due ovali dello stesso emblema. Uno e' riportato in bianco e nero, fedelmente all'originale, e l'altro invertito e reinterpretato con la pittura, e spesso anche con i titoli tradizionalmente intesi, dove pare che l'artista si diverta, accompagnati dalla tecnica di esecuzione, con la data e con la dimensione dell'opera. Moscato e' il cognome di sua madre.



La mostra e' accompagnata, negli stampati, da due lettere all'autore, di Gelsomino D'Ambrosio (teorico e ricercatore grafico di comunicazione visiva - art director di Segno Associati di Salerno e docente all'I.S.I.A. di Urbino) e di Antonio d'Avossa (critico d'arte - docente all'Accademia di Belle Arti di Brera di Milano).

Comunicato stampa dalla mostra al Centro Culturale Puskin Via Bernardino Verro, 15 - 20142 Milano 21 maggio 15 giugno 2002 ore 19,00




Lettere


Caro Angelo,

mi chiedi di scriverti una lettera  che chiamerò “aperta” perché pubblica, in nome della nostra amicizia e dei nostri comuni ricordi.
Mi chiedi, altresì, del reciproco rapporto con un personaggio storico come Giulio Cesare Capaccio, un rapporto che posso immaginare triangolare per i molti rimandi sia geografici che culturali tra noi e lui.
Questo triangolo per le comuni radici e le frequentazioni discontinue può rimandare, come tu suggerisci nella tua precedente lettera, ad alcuni luoghi precisi come Napoli, Paestum, ecc.. Ma istintivamente a questi luoghi io ne sostituirei altri come: Campagna, Roma, Urbino.

Inizio con Campagna. Nel mio ricordo è la città dove uno spazio diventa un’immensa lavagna grigia, noi due vestiti, con i grembiuli neri  (o forse bianchi) e il nastrino che mutava colore di anno in anno, chinati, inginocchiati e a volte distesi a disegnare con “mozziconi” di gesso in una gara priva di vincitori con l’unico desiderio di scoprire i segreti del disegno; un linguaggio che ancora ci accompagna quotidianamente con servizievole sollecitudine.
Infine, sporchi di gesso, con le mani e i grembiuli imbiancati di “purezza” come uno scriba medioevale dopo le preghiere, abbandonavamo quella lavagna o più esattamente quel “largo” ancora oggi dedicato a Giulio Cesare Capaccio.

A Campagna segue Roma. I vertici del triangolo in questa città sembrano allontanarsi, perché  nei nostri ricordi questo luogo ci parla dei primi studi, dell’incoscienza di vivere, e delle prime conquiste culturali. Sole e pioggia, estati caldi e inverni ventosi, cene “rubate” e mattinate sonnolenti in via dei Serpenti, in seguito in via Crispi, in via Margutta e a Trastevere tutto veniva macinato nell’allegro mulino della gioventù.
Per il terzo vertice del triangolo sono, quelli romani, anni oscuri. Giulio Cesare Capaccio cerca l’attenzione dei potenti: celebrando fasti e pubblicando odi ma con malinconici risultati, restando sostanzialmente ai margini della vita intellettuale della Capitale.
Per lui le estati saranno caldissime e gli inverni freddissimi, forse il “sapere” non sarà stato sufficiente ad alleggerire i primi segni della vecchiaia ed ad allontanare il dolce ricordo di Campagna.

Infine Urbino. La città dove da oltre dieci anni insegno in un Istituto – come tu scrivi – specifico a carattere universitario e/o accademico (e/o mi ricordano molto gli anni sessanta), in questa città-nave che si erge sulle colline mille volte incisa e dipinta nel corso “morbido” del tempo.
La città-nave solca queste colline e nei giorni di neve o di nebbia sembra emergere in un mare bianco e umido, in una posizione perfettamente inversa a Campagna, che invece di innalzarsi, sprofonda, mantenendo, però gli stessi umori che si infiltrano tra le pietre e i mattoni, tra l’acciottolato o i “basoli”.
Forse la stessa sensazione l’avrà provata il più importante campagnese che ha attraversato queste strade, giunto fin qui, chiamato da Francesco Maria II della Rovere con l’incarico di soprastante della Biblioteca Ducale, più attento alla politica e al matrimonio tra Federico Ubaldo e Claudia dei Medici che ai libri.
Come puoi facilmente immaginare l’illustre campagnese non è altro che Giulio Cesare Capaccio.

 Salerno, 15 maggio 2002

 Gelsomino D’Ambrosio



Caro Angelo,

ricordo con chiarezza l’occasione del nostro primo incontro. A metà degli anni settanta, in casa di Angelo Trimarco a Salerno, sul pavimento ricoperto di una moquette grigia disponevi una sequenza di fotografie non molto grandi tutte incorniciate singolarmente, ricordo lo sfondo di un cielo azzurrissimo un piccolo aereo di carta, e la tranquillità incuriosita del Professore e del suo assistente, io stesso.

Da allora sono passati molti anni, e tu sei ricomparso in un mio soggiorno in Costa Amalfitana, dove al ruolo di artista affiancavi progetti di esposizioni a Campagna, la tua città, dove ti adoperavi per rendere meno provinciale la vita. Non posso dire di averti seguito in questi anni. Il mio lavoro e la mia vita hanno spesso spinto l’attenzione a differenti climi culturali e pratiche dell’arte. Da qualche anno sei ritornato a Milano dove attraverso comuni amici hai voluto rintracciarmi, chiedendo spesso una mia opinione sul tuo lavoro.

La mia idea nei tuoi confronti è sempre stata molto distesa. Ti ho consigliato di procedere lungo quel singolare percorso che avevi scelto. A partire da Giordano Bruno continuando per Giulio Romano sino a quel Giulio Cesare Capaccio con cui pare ti incontri per questa mostra. Buona l’idea! Ma migliore ancora quella di esporre in un centro culturale fuori dalle logiche di gallerie milanesi più o meno per bene. La singolarità del tuo lavoro si esprime da sempre fuori da queste logiche. Vuol dire che sei un artista isolato. No, credo che tu sia uno dei tanti artisti che non cede al ricatto del supermercato dell’arte, ma organizza la sua ricerca per un piacere di radicate incertezze nell’universo di una cultura visiva che non dimentica che insieme (e non prima) all’arte convivono letteratura, scienza, visioni e utopie.

Di queste certezze è costruito il tuo lavoro, raro e rarefatto, dove ora a elefanti ed emblemi, motti e striscioni, associ colori e geometrie, infine nomi come quello di Capaccio, quasi a consolarti (e a consolarci) di quella perdita, sofferta e voluta, per quel cielo azzurrissimo che in questa città, senza firmamento e senza paesaggio, continua a mancarci tanto.

Un saluto all’ombra delle idee.

Milano, 18 maggio 2002
                                                 
Antonio d’Avossa 



sabato 18 settembre 2010

Testi critici (in costruzione - under construction)

Dalla mostra “Due o tre angoli di casa” 
Galleria "Taide Spazio Per"-  Salerno 1981

 Angelo Riviello utilizza la fotografia per un lavoro umile, esibito nel suo valore elementare di riproduzione di una scena. Un angolo di una galleria diventa lo spazio privilegiato per pochi oggetti che rimandano alla casa, all’attività che vi si svolge.
Oggetti che somigliano molto a reperti sopravvissuti ad una catastrofe: un libro, un fiore, un flauto, un giocattolo in legno, un arco rudimentale da utilizzare in un piccolo giardino, qualche altro oggetto da indovinare all’interno di un’attività ludica dimenticata. La galleria è vuota (in questo caso la Taide di Salerno, nota per la sua rivista “Materiali minimi”), bianca e asettica come un laboratorio prima di un esperimento. Solo gli angoli sono occupati fino ad un’altezza di cinquanta centimetri; angoli utilizzati a coppie, simmetricamente. Da una parte la piccola scena del quotidiano, della casa dimenticata o troppo ricordata (la mostra ha per titolo “Due o tre angoli di casa”), dall’altra una fotografia di quella muta rappresentazione riproducono il gioco della memoria, la ricerca di una tridimensionalità perduta, di un vissuto ormai impenetrabile se non attraverso un’immagine, una ricostruzione schiacciata su un foglio, come per un processo di condensazione. “Le noème de la Photographie est simple banal; aucune profondeur: ça  a eté ".  Ma non alla indimenticabile riflessione dell’ultimo Barthes, quanto a Dubuffet fa pensare l’operazione di Riviello : quanto ai suoi "teatri della memoria ".  Un paragone non certo tra Riviello e Dubuffet, ma tra l’area di ricerca dei due. Gli oggetti si allineano nella fotografia dell’uno con l’attenzione-intenzione di ripercorrere i meccanismi della memoria come sulla tela dell’altro: la memoria non si lascia prendere all’amo della ricostruzione di sé, se non prosciugata da ogni scoria tridimensionale, da ogni possibilità di ripercorribilità. Ecco che allora diventa comprensibile la doppia collocazione, la simmetria della disposizione degli oggetti e della loro rappresentazione fotografica: è un ricondurre la memoria sui propri passi, un tentativo elementare di ripeterne i procedimenti, i meccanismi.
Ma potremo anche tentare l’interpretazione contraria: dal sogno bidimensionale della fotografia è estratta la composizione nello spazio degli stessi oggetti rappresentati. La memoria, secondo Riviello, avrebbe, allora, un suo labirinto elementare dal quale non sa, né può, uscire. Gli oggetti mostrano la loro morte e la nascondono.
Due rappresentazioni che rimandano l’una all’altra in un circuito che non procede, ma rimanda solo ad altri circuiti speculari simili, in altri angoli della galleria (come in altri angoli della memoria).
“Or, un soir de novembre, peu de temps aprés la mort de ma mère, je rangeai des photos ».

Rino Mele
Salerno, 1981



Da  “Arte in Transito-Pubblicinvasioni” 
Potenza 2009

"...a pane e acqua?" di Angelo Riviello 
Un'immagine diretta ed essenziale, una tagline efficace che suscita curiosità. Il linguaggio è senz'altro mutuato dalla pubblicità...ma cosa reclamizza quest'opera? Il pane e l'acqua gli elementi essenziali della vita, sono accostati ad un modo di dire che rimanda ad un significato di punizione, di costrizione. L'artista fa dialogare immagini e parole con ironia e ambiguità: è una denuncia allo stato di povertà in cui versa buona parte del mondo contemporaneo che si rovescia facilmente in una esortazione a recuperare il senso di valori semplici e frugali, a non dimenticare l'essenziale in questi tempi di superfluo.

Barbara Improta
Potenza settembre 2009

mercoledì 15 settembre 2010

Anni 90/2000 - "Angelo Riviello Moscato & Filippo Bruno Nolano" - Work in Progress 1992-96-2003

"Ridisegnando Bruno - Esprit de Geometrie Hérétique" (5), 1992-2003, 
incisione con punteruolo su ardesia, 100x100x2 cm.

"Ridisegnando Bruno - Esprit de Geometrie Hérétique" (4), 1992-2003, 
incisione con punteruolo su ardesia, 100x100x2 cm.

"Ridisegnando Bruno - Esprit de Geometrie Hérétique" (3), 1992-2003, 
incisione con punteruolo su ardesia, 100x100x2 cm.

"Ridisegnando Bruno - Esprit de Geometrie Hérétique" (2), 1992-2003, 
incisione con punteruolo su ardesia, 100x100x2 cm.

"Ridisegnando Bruno - Esprit de Geometrie Hérétique" (1), 1992-2003,
incisione con punteruolo su ardesia, 100x100x2 cm.





"Angelo Riviello Moscato & Filippo Bruno Nolano"

Work in Progress
1992-96-2003

dalla serie

"Esprit de Geometrie Hérétique"

Ridisegnando Bruno

Ho vissuto e lavorato per alcuni anni (1988-90/1992-94) nello stesso luogo dove Giordano Bruno ha compiuto il noviziato celebrando la prima messa e dove ha concepito gran parte delle sue opere: il Convento dei Frati Domenicani di San Bartolomeo della Città di Campagna (Sa), con annessa Chiesa del SS. Nome di Dio, dove è venerato uno dei rari esempi di Cristo velato in Italia.

. Ho inciso su ardesia, a mano libera con un punteruolo, una serie di disegni er(m)etici di Giordano Bruno, dallo spirito rigorosamente geometrico. Chiunque li può ridisegnare con il gessetto. Con una performance-azione. Nella mia immaginazione, penso al Papa, ad un cardinale, ad un vescovo, a un monaco domenicano, a una suora, o anche realisticamente parlando, ad un semplice prete (possibilmente esorcista), che compia questo gesto, nella imprevedibilità dell'azione, accompagnato per mano da un bambino.

Dati tecnici:

Incisione con punteruolo su ardesia. 
Dimensioni: 100x100x2 cm.

Milano/Campagna, 9 - febbraio - 2003/2005




martedì 14 settembre 2010

Lavori Giovanili/Young Works - 1964-68


"Natura morta", 1966, olio su tela di sacco, 45x50 cm.
"Figura del sud", 1966, olio su cartone telato, 35x50 cm.
"Eutanasia", 1966, olio su cartone telato, 50x70 cm.
"Senza titolo", 1966, olio su cartone telato, 50x70 cm.
"Venerdì santo in Campania", 1966, olio su tela di sacco, 77x100 cm
"Il distacco", 1967, olio su masonite, 75x100 cm.
"Senza titolo", 1967, olio su masonite, 94,5x49 cm.
"Senza titolo", 1967-68, olio su tela, 70x100 cm.
"Senza titolo", 1968, olio e smalto su tela, 50x70 cm.


Mi ricordo come se fosse ieri. Dopo tanti disegni e il primo quadro ad olio, su masonite, la classica “Natura Morta” (di cui ho perso le tracce), eseguita in compagnia di un amico d’infanzia (con la passione della pittura) che aiutava il padre nella professione di “imbianchino”, e il secondo, sempre ad olio, dal titolo “Fari”, un gioco elementare, astratto-geometrico fatto di colori incrociati, eseguito per gioco con un altro mio compagno di strada (che ancora conservo e si trova in fase di restauro), mi accinsi a dipingere un grande quadro (si fa così per dire, rispetto alle piccole dimensioni con cui mi ero abituato fino all’età di 16/18 anni) in occasione di un concorso di pittura a tema libero, che si teneva a Battipaglia in cui non si vincevano premi in denaro e possibilità di essere inseriti nei circuiti, come oggi, ma solo coppe, medaglie e attestati (alla gloria).

Era il 1966, frequentavo l’ultimo anno dell’Istituto d’Arte di Salerno. Avevo 19 anni. La mia limitata conoscenza degli artisti moderni e contemporanei, era puramente didattica e limitata alle poche mostre che ti poteva offrire allora la città di Salerno. Mi ricordo, a parte le personali di Mario Carotenuto (pittore salernitano molto conosciuto) o le collettive dei nostri insegnanti, una bella mostra grafica sugli espressionisti tedeschi, dei quali rimasi molto colpito e al tempo stesso facevo i paragoni con Guttuso, Vespignani, Guccione, Attardi, allora molto in auge, non solo in provincia. Ero a conoscenza, attraverso la pubblicazione di libri, collane e riviste, dell’esperienza informale di Burri, dell’espressionismo astratto di Pollok, della pittura di un Bacon, di accenni sull’avanguardia artistica del novecento, creando in me i primi impatti e riflessioni, iniziando così una mia maturazione e una mia avventura nei meandri della ricerca artistica, rimettendo sempre tutto in discussione e anche me stesso.

All’età di 19 anni, in modo viscerale ho dipinto il mio primo grande quadro ad olio (con il quale partecipai al concorso di pittura, di cui sopra), usando come supporto la tela di sacco (un sacco vero che avevo sventrato), su cui ho dipinto spremendo direttamente il colore dai tubetti, dal titolo: “Venerdì Santo in Campania”.

Questi primi quadri, accompagnati da tanti disegni, soprattutto quelli realizzati tra il 1966 e il 1967, con alcuni del 1964 e 65, rispecchiano una realtà dominante che mi offriva il mio ambiente. Una realtà, che accavallava sentimenti contrastanti, tra gli usi e costumi, dove la religione cattolica  la faceva da padrone, in un ambiente provinciale, ristretto, che lentamente si avviava verso il suo declino, dopo una gloria passata, vivendo ormai solo di ricordi, dove a prevalere su tutto, nel quotidiano era il sapore della morte,  la commemorazione dei defunti, i funerali nell’unico corso principale della città e le processioni religiose in quasi tutte le strade e stradine del centro storico. Un sapore onnipresente che si respirava dovunque. In casa, infatti, mia madre, come tutte le madri, aveva gli altarini, con i Santini e i suoi cari.

Un ambiente, che aveva segnato la mia infanzia (a parte le poche evasioni che poteva offrire il cinema e la prima televisione) e che a 19 anni tentavo di distaccarmene, dipingendolo a modo mio e interpretando a modo mio, i maestri che iniziavo a conoscere attraverso la stampa e in quelle poche mostre che Salerno poteva offrire.

18 – febbraio – 2006